Hogwarts: Il Paiolo Magico - {Harry Potter GDR}

Personaggi in cerca d’autore

Uno spazio di libera espressione… dei miei personaggi

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    Ciao a tutti.
    Non so chi potrebbe trovarsi qui a leggere. Né se ci sarà effettivamente qualcuno a leggere.
    Ma mi pare di comprendere che questo è uno spazio che si può usare per la libera espressione.
    Vorrei usare quindi questo topic per dare voce ai miei personaggi, più che a me.


    A volte possono sembrare piatti e banali. Probabilmente anche antipatici.
    Ma cerco di mettere molta umanità in loro. Al punto che mi ritengo più un osservatore che un autore.
    Una volta Andrea Camilleri disse che scrivere un romanzo di Montalbano era semplice. Tutti i suoi personaggi ormai erano talmente delineati da avere praticamente vita propria. Tutto quello che doveva fare era leggere un articolo di cronaca nera sul giornale e il libro si scriveva da solo.
    Non sono in molti a conoscere Sir Arthur Conan Doyle, eppure è difficile trovare qualcuno che non conosca il suo celebre personaggio Sherlock Holmes. Questo è un classico esempio di quando un personaggio ben delineato prende vita e diventa persino immortale. Conan Doyle odiava il suo personaggio. Odiava scrivere romanzi investigativi pieni di logica e raziocinio. Provò persino a uccidere Holmes buttandolo giù da una cascata. Ma l’ultimo caso di Sherlock Holmes non fu davvero l’ultimo. L’autore continuò a dover scrivere e narrare altre storie, schiavo della sua stessa creazione.

    img-1-small580



    In pratica, quello che cerco di dire è che vorrei che anche i miei personaggi siano così ben delineati da prendere vita. Ed è così che mi piacerebbe usare questo spazio.

    Grazie
     
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    Chiedo perdono se questi post finiscono per urtare la sensibilità di qualcuno.
    La lettura è fortemente sconsigliata a chi è emotivamente fragile.






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    Daito Falco

    Data di nascita: 04/07/1996
    Occupazione: Studioso; Ricercatore; Scrittore
    Stato di sangue: Nato Babbano
    Scheda PG: Daito Falco

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    - Parlato -
    Pensato




    Estate del 2004.
    Ci troviamo in Italia. Per l’esattezza nella mia cameretta. Avevo da poco compiuto 8 anni.
    Era ormai sera. Il caldo aveva lasciato posto a una piacevole frescura. Il cielo era sgombro e si poteva chiaramente vedere una miriade di stelle. Si potevano quasi contare per quanto nitida era la loro luce.
    Mentre gli adulti godevano di quel gradevole ristoro dal caldo, io mi trovavo da solo nella mia stanza. Come sempre del resto.
    Come già detto, avevo da poco compiuto 8 anni.
    Avrei potuto invitare gli amichetti di scuola, ma non invitai nessuno, perché non c’era nessuno da invitare. Non avevo amici.
    Così festeggiai coi parenti, come sempre del resto.
    Era passato qualche giorno ormai da quella festa, ma continuavo ormai a ripetere sempre la stessa cosa ogni sera.
    Quando era il momento di andare a dormire, facevo le mie preghiere.
    Ero solo un bambino, eppure avevo un gran desiderio nel cuore.
    Così, per l’ennesima volta, mi inginocchiai sul scendiletto. Un tappeto duro e nodoso. Sarebbe stato meno spiacevole inginocchiarmi direttamente sul pavimento, ma la mia giovane mente aveva compreso a modo suo che la fede cattolica apprezza le punizioni corporali come segno di pentimento.
    Ero contrito dopotutto.
    Giunsi le mani e guardai verso l’alto. La luce sul comodino era flebile e appena sufficiente. Ma andava bene così. Quel tenue bagliore era l’atmosfera ideale per entrare in comunione con la mia parte spirituale.
    - Signore, io non so qual è il mio peccato. Cerco sempre di essere buono. Cerco di non fare arrabbiare mamma e papà. Cerco di non dire bugie e fare la cosa giusta. Io ci provo davvero. Eppure… sono solo.
    - Non so cos’ho fatto per meritare questa punizione. Quando provo a fare amicizia, finisce sempre male. Nessuno vuole giocare con me. Nessuno mi vuole bene. Nessuno mi accetta. Ho questo grande dolore nel petto e non so perché. Signore ti prego, ti scongiuro, dimmi cosa ho fatto per soffrire così. No so come fare se non so il mio peccato.
    - Ti prometto che sarò buono. Ti prometto che non farò mai male a nessuno. Ma ti prego, basta. Non ce la faccio più. Fa troppo male. Non so qual è il mio peccato, ma mi dispiace. Tu vedi il mio cuore. Lo sai che è vero.
    - Mi dispiace. Mi spiace tantissimo. Mi dispiace. Ti scongiuro, non farmi più soffrire così. Fa troppo male. Mi dispiace. Mi dispiace. Perdonami ti prego. Mi dispiace -

    Quella sera non erano previste precipitazioni. Il cielo era sgombro.
    Eppure un piccolo temporale fece la sua comparsa sul quartiere dove abitavo.
    Le lacrime scendevano sul vetro della mia finestra, copiose come quelle sulle mie giovani guance.

    Nessun bambino dovrebbe ritrovarsi a fare certe preghiere.




    Edited by FrancyDaito - 18/4/2024, 10:07
     
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    Mi svegliai di colpo. Avevo gli occhi umidi. Probabilmente avevo pianto nel sonno.
    Ormai facevo solo incubi.
    Mi rigirai fra le lenzuola, rimanendo a fissare il nero soffitto di una piccola stanza buia. Le persiane rigorosamente chiuse per non far entrare la luce.
    Mi ero diplomato da qualche anno ormai, ma le cose non erano cambiate. Avevo deciso di vivere per conto mio. Per un po’ la cosa non fu un problema, ma non avere altre persone intorno mi aveva dato la possibilità di mostrare il mio vero io.
    Avevo sete. Avevo fame. Ma nessuna voglia di bere o mangiare.
    Dicono si possa digiunare per un mese prima di morire. Di certo lo si può fare per cinque o sei giorni.
    Basta fare attenzione a non alzarsi dal letto troppo in fretta o ci si sveglia a terra dopo essere svenuti.
    Lo sapevo bene.
    Il mio corpo reclamava cibo, ma la mente lo rifiutava. Non ce la facevo.
    Un bicchiere d’acqua ogni uno o due giorni poteva bastare.
    Mi sentivo debole, certo. Ma non riuscivo a fare di più.
    I miei occhi ruotarono verso la finestra.
    Quel piccolo conforto. A volte sporgermi dal settimo piano mi dava l’illusione del controllo.
    Immaginavo di porre fine ai miei tormenti. Immaginavo la quiete che avrei provato in una decisione davvero mia.
    Perché io in realtà non avevo scelta.
    Ero prigioniero dell’affetto verso la mia famiglia, che come catene mi vincolava a questo mondo.
    Ero prigioniero in un mondo che non mi voleva. Rifiutato dalla società. Rifiutato dalla fortuna. Rifiutato dall’affetto.
    Ero in tutto e per tutto un rifiuto.
    Sgradevole ed emarginato.
    Uno scarto della selezione naturale.
    Non c’era felicità per un essere come me. Non c’era futuro.
    La speranza era la mia peggior nemica.
    Nessuno mi avrebbe mai amato. Non sarei mai riuscito ad avere una vita degna di tale nome. Esistevo e basta, desideroso ti trovare un piccolo pertugio dove accoccolarmi e semplicemente aspettare la fine.
    Avevo ormai accettato l’idea di non poter provare la vera gioia. Ero la prova lampante che al peggio non c’è mai fine. La prova che non siamo realmente gli artefici del nostro destino.
    Non importa quanto ci sforziamo, ci affanniamo e ci mettiamo impegno. Se non abbiamo un minimo di fortuna, non funzionerà mai niente.
    È come cercare di afferrare le stelle a mani nude.
    Una mera illusione.
    Gli esseri umani hanno la possibilità di essere felici. Hanno la possibilità di vivere. Hanno la possibilità di vedere fruttare i loro sforzi.
    Eppure quel principio con me non si applicava.
    Siamo miliardi sul pianeta. Eppure tutti sostengono che si possa essere artefici del proprio destino.
    L’unica spiegazione logica era che io non ero dunque un essere umano.
    La gente non capisce. Non può capire.
    Vive una vita e riesce lì dove si impegna. Riesce a essere felice.
    Non può capire cosa voglia dire la mia esistenza.
    Le loro regole non sono le mie. I loro incitamenti si basano su presupposti errati.
    Gli altri odiano chi soffre di depressione, definendoli persone che non ci provano nemmeno.
    Eppure, nessuno nasce ritenendo di essere diverso.
    Ho lottato duramente e disperatamente per trovare la felicità.
    La consapevolezza di essere un rifiuto è emersa poco per volta, fallimento dopo fallimento, pianto dopo pianto. Ho cercato in tutti i modi di rifiutare la realtà, di rinnegare la mia incapacità di vivere.
    Ma non dipende da me.
    Non è mai dipeso da me.
    E nessuno può capire, perché loro hanno la possibilità di essere felici e davano per scontato che io non fossi diverso. Ma lo ero.
    Dopo un paio di decenni di esistenza, non potevo più credere nella speranza di essere come tutti gli altri.
    Io ero senza alcun dubbio un rifiuto.

    Mi girai nuovamente su un fianco.
    La debolezza aveva il vantaggio di farmi dormire tutto il giorno. Cercavo riposo nell’incoscienza.
    E mi riaddormentavo ogni volta immaginando di non svegliarmi più.

    Dio ama i suoi figli. È un dato di fatto. Quindi io non ero suo figlio. Non c’era altra spiegazione.



     
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    Qualcosa non andava.
    Eravamo giunti, dopo diverse peripezie, alla fase finale della lezione.
    Pensavo avrei potuto rilassarmi e riposare finalmente, passando qualche sereno momento di spensieratezza con i miei compagni di avventura.
    Ma forse mi sbagliavo.
    Avevo cercato di scherzare con loro, ma le reazioni ricevute furono fredde. Erano nervosi, irritati e infastiditi… da me.
    Il sorriso sul mio volto si spense rapidamente.
    L’aria era tesa. Carica di un’atmosfera angosciante. E con ogni probabilità la ragione ero io.
    Non sapevo bene quale fosse la mia colpa, ma non importava. Ormai era quella la situazione.
    - Scusatemi - dissi alzandomi e congedandomi dai due.
    Mi allontanai dal campo della tribù. Mi allontanai il più possibile.
    Raggiunta una enorme radice del grande albero che fuoriusciva appena dal terreno, mi accasciai poggiando la schiena sulla corteccia coperta di muschio.
    Mi sa che avevo frainteso tutto.
    Come mi era potuto venire in mente anche solo per un momento l’idea di essermi fatto degli amici?
    Ero proprio uno stupido.
    Un idiota totale.
    Alzai lo sguardo verso le altissime e sconfinate fronde. Me lo meritavo?
    Sì. Me lo meritavo.
    Avevo ormai da anni rinunciato a capirne la ragione, ma dovevo per forza meritare quella condanna. Non riuscivo ad accettare l’idea che il mio destino fosse un mero frutto del caso. Né che la fonte del mio dolore non avesse una giusta ragione.
    Ripensai nuovamente al tocco degli esseri gelidi. Era stato un dolore momentaneo, ma che aveva senz’altro una ragione logica. Era accettabile. Era tollerabile. Aveva occupato la mia mente per un breve istante.
    Sfilai la bacchetta dalla manica, la puntai contro il mio fianco destro e usai l’incantesimo refrigerante.
    Era freddo. Ma non era lo stesso.
    Lasciai perdere. Tornai a guardare i rami che come un cielo arboreo si stagliavano sopra di me.
    Tu sai perché mi capita tutto questo, vero? pensai.
    Ma l’albero rimase in silenzio.
    Non sarebbe stata certo quella entità ultraterrena a svelarmi il segreto della mia disgraziata esistenza.

    Restai lì, da solo, a rimuginare sulla possibilità di tornare indietro e farmi fagocitare dal mostro marino.
    Poi vidi in lontananza gli insegnanti che richiamavano l’attenzione. La passaporta si sarebbe attivata da lì a breve.
    Mi avvicinai quindi e facendo bene attenzione a star lontano da Nathan e Nate, toccai l’oggetto che ci riportò in aula.
    Nemmeno il tempo di essere arrivati, che tirai fuori la scatolina che custodiva la mia passaporta personale per l’Italia.
    La usai, tornando a viaggiare.
    Atterrai in una stanza buia, ma perfettamente familiare.
    Mi bastò la penombra per trovare un cassetto, aprirlo e tirarne fuori una piccola confezione di farmaci.
    Presi un paio di compresse e le mandai giù con un po’ d’acqua. C’era una bottiglietta lì vicino proprio per questo scopo.
    Poi andai a distendermi su di un letto monoposto.
    Fissai il soffitto.
    Mi girai su un fianco. Poi sull’altro.
    Non riuscivo a riposare. La mia mente andava a mille e continuavo a rimuginare su quanto fossi stato sciocco a credere che io potessi avere qualcuno intenzionato a offrirmi la sua amicizia.
    Davvero sciocco.
    Presi altre due compresse, per un totale di quattro rispetto alla mezza prescritta dal medico.
    Non mi importava.
    Per riuscire ad addormentarmi presi anche una fiala di pozione. Che mi portò a perdere i sensi.
    Dormii dodici ore.
    Dodici ore che avevano attenuato quell’abisso di tormento che mi squarciava perennemente il petto.
    Ma quando mi svegliai, non era cambiato niente.
    Avrei voluto piangere, ma forse avevo esaurito le lacrime.
    Mi rigirai, sforzandomi di dormire ancora un po’.

    Il dolore profondo non conosce assuefazione.



     
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