Hogwarts: Il Paiolo Magico - {Harry Potter GDR}

Ciò che dà un senso alla vita, dà un senso anche alla morte.

Per Daphne Harper | rees.

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    Un silenzio surreale aveva avvolto l’aula di Difesa Contro le Arti Oscure dopo l’uscita di tutte le compagne. Summer, che all’inizio della lezione aveva chiesto alla Harper la possibilità di un confronto, aveva tirato per le lunghe, impiegando più tempo del previsto per rassettare tutti i suoi averi e riporli all’interno della sua tracolla.
    “Prof., ehm... posso?” domandò, quando ormai la professoressa aveva varcato la soglia dell’aula, pronta ad andare in un altro luogo del castello. Summer non sapeva se dopo quella lezione Daphne avesse impegni con gli studenti degli altri anni scolastici, tuttavia era consapevole che, se avesse indugiato troppo a lungo, avrebbe continuato a tenersi dentro quel peso che dall’anno prima la schiacciava come un macigno all’altezza del cuore. Da quando Daphne aveva parlato in classe di suo marito e della sua morte, Summer non aveva smesso un solo istante di pensarci. Le aveva invidiato la naturalezza con cui la donna era riuscita a trattare un argomento tanto delicato in modo così lucido e razionale. Per quanto lei ci stesse provando ormai da più di cinque anni, non era mai riuscita a ottenere risultati concreti. Quando parlava di sua madre, ogni volta, ricadeva sul suo sguardo un’ombra pesante e oscura, che le chiudeva il cuore e le faceva erigere spesse pareti invalicabili. Lo scudo di sarcasmo e di aggressività che innalzava era diventato per lei come una seconda pelle: quando il dolore sordo le trapanava il petto, si sentiva soffocare e avvertiva l’impellente bisogno di sfogare la sua rabbia e la sua frustrazione sul primo malcapitato che le capitasse a tiro. Era accaduto anche con Meggie, prima che la loro amicizia diventasse qualcosa di robusto e concreto; succedeva spesso con compagni di classe e di casa, talvolta anche con i cugini e con il suo stesso padre. La ribellione che attuava ogni giorno nei confronti di quest’ultimo era l’ultimo tassello di un puzzle fatto di frantumi di dolore, sofferenza e nostalgia verso il passato.
    “Io è da tanto che voglio chiederle una cosa… come fa?”
    La domanda uscì dalle labbra di Summer a bruciapelo. La Sawyer-Butler non riuscì a trattenerla. Per un istante pensò d’essere stata troppo diretta o brusca, ma in quel momento per lei non aveva granché importanza. Era in cerca di risposte e aveva bisogno di cambiare prospettiva del mondo se voleva sbloccare quella tremenda situazione nel suo cuore.
    “Lei, l’anno scorso, ha detto che… ecco, ha parlato di suo marito. Come ha fatto a parlarne in maniera così lucida? Me lo insegna?” chiese poi quasi implorante. Gli occhi di Summer, suo malgrado, s’erano fatti lucidi e le mani, mentalmente, erano intrecciate in una forma di preghiera latente che Daphne sarebbe riuscita correttamente a decodificare se avesse fatto attenzione ai particolari.
    La Serpeverde abbassò lo sguardo, torcendosi l’indice della mano destra; inspirò profondamente, incapace di scusarsi per il modo diretto con cui aveva posto quel quesito così personale e intimo per la docente.
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    Quando, a inizio lezione, Summer le aveva chiesto di poterle parlare, Daphne si era chiesta quale fosse l'argomento. Non credeva di esserle particolarmente simpatica e, immaginava, di certo non era la sua docente preferita. Quindi perché a lei? La lezione era però trascorsa frenetica come sempre, gli esercizi e gli incanti l'avevano rapidamente distratta da quel quesito, sebbene ricordasse che al termine delle due ore Summer si sarebbe trattenuta. E quando questo avvenne, Daphne si limitò a sorriderle facendo un cenno con il capo. Rimase in piedi, poggiando le mani al bordo della cattedra dandole le spalle. Per la prima volta - o quasi - Summer era senza parole. La domanda le arrivò come una stilettata al cuore. Come faceva? Era possibile insegnarlo? Voleva davvero che la giovane, per quanto maleducata e aggressiva, seguisse le sue terribili strategie di coping?

    Si spostò dietro la cattedra, evocando dal suo ufficio il necessario per fare il the. Con la magia scaldò l'acqua e porse a Summer la tazza, una serie di infusi dai sapori diversi fra cui scegliere e la zuccheriera. Per lei, the al bergamotto. La cura di ogni male. E due cucchiaini di zucchero. Non credo si possa insegnare, Summer. Disse, dopo un silenzio che era sembrato infinito anche alle sue orecchie. Aveva preso tempo per cercare di mettere in ordine i pensieri e provare a risponderle nella più totale sincerità, per quanto non le sarebbero piaciute le sue parole. Immagino che la prima cosa da fare sia accettare che il dolore non se ne va. Che nel corso del tempo può cambiare. A volte sarà così leggero da farti avere paura di poter dimenticare chi hai perso darle del tu per un senso di vicinanza era una scelta strana, azzardata, anche per lei. ma tornerà a colpirti come un pugno nello stomaco perché un amore così grande non può guarire. Compleanni e anniversari, per esempio. Ma anche i traguardi. Quando ti diplomerai il vuoto al tuo fianco sarà una voragine. O quando soffrirai per un litigio con una persona amica, la mancanza di quella persona accanto che possa darti conforto ti darà sentire come se nessun altro potesse capirti. Fa male e lo farà sempre. Non c'era una bacchetta magica. E avrebbe voluto dirle che un modo c'era, che bastava un incantesimo o una pozione di qualche tipo. Ma sarebbe stata una bugia. Credo questo sia il primo passo. Affondò il volto nella tazza, incapace, almeno al momento, di proseguire e curiosa di sapere se Summer volesse aggiungere qualcosa.

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    Essere accolta dalla professoressa Harper le faceva effetto: non era abituata a interfacciarsi con lei se non durante le lezioni e i suoi atteggiamenti, doveva ammetterlo, non erano dei migliori. Spesso infatti Summer si divertiva a far impazzire la professoressa con battutine, frecciatine e comportamenti non adatti al contesto classe. C’erano le giornate in cui si poneva sfacciatamente e altri in cui invece non faceva altro che provocare e opporsi a quelle che erano le richieste fatte in classe. Quel giorno, però, le si era avviluppato qualcosa dentro, come se si fosse aggrappato alla sua coscienza e stesse lottando con i denti e le unghie per tenersi aggrappato a fatica.
    Summer si ritrovò a osservare distrattamente il kit per il tè che Daphne aveva fatto comparire sulla cattedra. La docente si era versata un tè al bergamotto, Summer invece propendeva per quello al gelsomino, l’unica bevanda amata da sua madre e uno dei pochi appigli che le restava per provare a condividere qualcosa con lei. Bevevano il tè insieme, quando Summer era solo una bambina ei capelli di Kathleen cominciavano a ingrigirsi sotto la spinta della depressione e dell’incuria. La madre si stava autodistruggendo ma Summer, troppo piccola ed egocentrica, non era stata in grado di cogliere i segni dei suoi squilibri e aveva perseverato con gli atteggiamenti fastidiosi anche nei suoi confronti.
    Le parole della Harper la colpirono come uno schiaffo in piena faccia. Summer boccheggiò di fronte a tanta franchezza. Sgranò gli occhi, fissando la professoressa e domandandosi come fosse possibile che esistesse qualcosa che non si potesse insegnare. A Hogwarts i professori sembravano avere sempre la soluzione per ogni situazione, invece per quella faccenda sembrava non esserci via di scampo.
    Daphne continuò la sua arringa e Summer distolse gli occhi da lei, spostandoli sul cucchiaino di zucchero che aveva versato all’interno del suo tè al gelsomino. I residui sul fondo iniziavano a depositarsi e se ci fosse stata sua nonna Areli l’avrebbe invitata a consumarlo il prima possibile per poterli leggere e interpretare. Era stata sua nonna materna a trasmetterle la passione per la Divinazione. La Sawyer-Butler mescolava meccanicamente l’infuso, osservando la spirale che si veniva a creare intorno al manico d’acciaio del cucchiaino, per metà inghiottito dalla tazza.
    “Torna sempre” disse continuando a fissare il vuoto e mostrandosi per la persona che non avrebbe mai voluto far conoscere al mondo. Detestava essere fragile e non amava farsi scoprire in lacrime. Aveva pianto tanto e a lungo, ma nell’intimità della sua camera da letto, seppellita sotto un mucchio di coperte che nascondessero i singulti di un pianto che riteneva troppo vergognoso per essere rivelato al mondo intero.
    “Il dolore, intendo. Li vedo, i miei compagni. Parlano sempre delle loro madri, che li accompagnano a King’s Cross. Ricevono baci sulla fronte, carezze tra i capelli e incoraggiamenti. Hanno qualcuno che li sgrida quando sbagliano e li premia quando fanno giusto. Sono fortunati e non lo sanno”.
    Il cucchiaino le scivolò di mano, tintinnando contro la tazza e producendo una eco che si propagò nel silenzio dell’ufficio della professoressa Harper.
    “Ci sono notti in cui mi sveglio nel letto. Mi manca l’aria, sento come se qualcuno mi stesse prendendo per la gola e soffocando. Avverto delle mani invisibili che mi stringono la trachea e mi impediscono di respirare. Penso sempre che sia lei, la donna che mi ha messo al mondo. Poi spalanco gli occhi e mi rendo conto che è sempre il solito, dannato incubo”.
    Summer recuperò il cucchiaino e lo sbatté appena sul bordo della tazza, lasciando scivolare un paio di goccioline affinché si ricongiungessero al resto del liquido. Il profumo al gelsomino invase le sue narici, facendole affiorare un senso diffuso di malinconia. Gli occhi le si inumidirono e la Serpeverde dovette lottare contro sé stessa per impedirsi di non piangere. Non voleva manifestarsi in tutta la sua fragilità di fronte alla docente nel timore che potesse usarla come arma contro di lei quando si comportava male in classe.
    “Poi, quando vado a lezione, vedo tutti i miei compagni. Per loro è tutto sempre così dannatamente facile. Hanno una madre e un padre, cosa che io non ho, e quando succede qualcosa gli scrivono. Ok, ho Sean, ma, siamo onesti, che padre è uno che dà sempre ragione a chiunque tranne che alla sua unica figlia? Che ha ucciso sua moglie e ha ben pensato di sposarsi invitando al matrimonio la sua amante o che minaccia ogni trenta secondi la sua unica erede di spedirla in Belgio in collegio?”
    Summer strinse il pugno, arrotolando le dita dentro l’estremità della divisa. Tirò la stoffa della gonna per cercare una sorta di conforto, prima di rendersi conto d’essersi lasciata andare troppo. Boccheggiando spalancò gli occhi. Abbandonò la presa sulla sua gonna scozzese e appoggiò entrambe le mani sulla scrivania della docente, quasi volesse sollevarla di peso.
    “No, non volevo… non volevo parlare male di mio papà. Non glielo dica, la prego. Se per caso dovesse mai parlargli, non gli dica che ho parlato male di lui”.
    Straparlava. Era evidente che Summer, dopo aver parlato male di Sean, fosse andata nel panico più assoluto. Aveva la fobia totale del padre e delle sue imprevedibili reazioni: quando voleva sapeva essere violento e cinico, avrebbe potuto comodamente distruggerla sia fisicamente che psicologicamente se solo l’avesse desiderato. Gli sarebbe bastato schioccare le dita per sbarazzarsi definitivamente di quel fardello che la defunta moglie gli aveva lasciato in eredità. Lo diceva spesso: che bell’eredità, Kathleen, che mi hai lasciato: una figlia buona a nulla e i sensi di colpa. Summer aveva quasi la sensazione di udire la voce del padre mentre pronunciava con biasimo quelle parole.
    Quando alzò lo sguardo sulla Harper, Summer cercò di tornare composta e arrogante, rialzando la solita facciata di sempre. Voleva scacciare quel momento di perdizione in cui s’era lasciata andare a essere sé stessa.
    “Cioè, volevo dire, se vuole dirglielo, lo faccia pure. Tanto mio papà non mi fa più paura”.
    Lo disse con spavalderia, quasi con spocchia, per cercare di ridimensionare l’attimo di défaillance che aveva avuto pochi secondi prima, nonostante in cuor suo lo temesse come un marinaio teme una tempesta in oceano aperto.
    “Prof, devo dirle una cosa…” esordì poi, dopo aver sorseggiato un goccio del suo tè al gelsomino. Non sapeva come fare a porre la questione. Avrebbe dovuto girarci attorno o andare diritta al nocciolo della questione? Non aveva di fronte Meggie, ma una professoressa. L’ultima volta che aveva parlato così francamente con una docente era stato l’anno precedente, al cospetto di Medea, quando era andata a costituirsi per aver seminato zizzania al ballo di San Valentino e per aver concluso la serata trasformata in un’orribile zucca.
    “Io… prima ho detto che mio papà l’ha uccisa, ma ho mentito… sono stata io ammise, abbassando lo sguardo. Una lacrima le sgorgò dall’occhio e subito Summer si prodigò per farla scomparire con uno sbuffo della manica. Si trascinò la stoffa sulla guancia, irritando appena la pelle che si arrossò lievemente per qualche istante. Ancora una volta i sensi di colpa arrivarono a sopraffarla. Per quanto tutti avessero a più riprese cercato di farle capire che lei non fosse l’artefice della morte della madre, ancora faticava a crederlo possibile.
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    C'era qualcosa di profondamente sbagliato in una bambina che doveva affrontare il lutto materno. Ancor di più nel momento in cui è la persona stessa a scegliere di porre fine alla propria vita. Ed era scontato, per Daphne, collegare l’atteggiamento oppositivo di Summer a una silenziosa richiesta di attenzioni. Attenzioni che puntualmente provava a disattendere, per impedirle di vivere in un meccanismo che, a lungo andare, sarebbe stato autodistruttivo.
    Osservava le sue reazioni alle sue parole. Gli occhi della Serpeverde si erano allargati, forse stupiti dalla sua brutale onestà, prima di abbassarsi e rivolgerli alla tazza che teneva fra le mani. E le sue parole, chiare ma pronunciate con un tono che mai aveva sentito, le fecero stringere il cuore. Erano sensazioni che conosceva bene. Che sentiva sotto la sua pelle ogni giorno da quindici anni. Quella mancanza di ossigeno, come se le tenessero la testa sott’acqua. Ma lei non era una sirena. Non sapeva come respirare lì sotto. Non dirò nulla a tuo padre, Summer. Sei qui per parlare con me, non con lui. Finché non avesse fatto qualcosa che l’avesse messa a rischio per la sua vita, non vi era motivo di raccontare nulla al signor Sawyer-Butler.
    Provò a recuperare con la solita sfrontataggine, Summer, fallendo. Nei suoi occhi era chiaro il panico e il terrore che provava nei confronti dell’uomo che l’aveva cresciuta. Cresciuta probabilmente senza nessuna forma di amore o manifesto affetto. Il Castello poteva essere l’occasione, per Summer, di allontanarsi definitivamente dal padre ed essere chiunque lei desiderasse. Peccato che fosse anche circondata dai parenti, dovendo così mantenere delle apparenze che si era costruita intorno. Una gabbia d’oro che si era scelta per proteggersi ma della quale aveva perso le chiavi ora che era grande abbastanza da non aver più bisogno di protezione. È normale colpevolizzarsi per la morte di chi amiamo. Ma ricorda che non importa cosa tu possa aver fatto, la scelta di giungere a quella conclusione non è mai stata la tua. Aveva un enorme problema, Daphne, con i suicidi. E in particolare ora che aveva sentito le parole di Summer, la donna sentiva che – pur non conoscendo i dettagli della vicenda – avrebbe tranquillamente dato la colpa al signor Sawyer-Butler. Non di certo a quella ragazzina che aveva davanti con gli occhi umidi di pianto e il terrore di aver ucciso la sua stessa madre.

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    Per Summer fu confortante apprendere che Daphne non avrebbe fatto menzione con Sean di quel piccolo inconveniente. Il terrore che il padre potesse venire a sapere cosa lei diceva in giro la spaventava. Più di una volta Summer aveva cercato di raccontare i fatti così com’erano, ma suo padre puntualmente non faceva che distorcere la verità, facendo passare la figlia per una sciocca e manipolando la realtà in maniera tale da uscirne sempre pulito. Poi a casa facevano i conti. Il finto sorriso di facciata spariva, lasciando spazio a un’espressione truce e scura, di quelle che infonderebbero terrore anche al più oscuro dei maghi. Summer aveva imparato a temere Sean subito dopo il decesso della madre. La sua morte era stata una sorta di cesura, decretando la vittoria definitiva per un padre che non aveva la benché minima voglia di spendere energie per crescere sia figlia. A lui importava soltanto dell’apparenza, della facciata, del buon nome di famiglia di fronte al resto della comunità magica. Il resto erano bazzecole.
    Summer sospirò, lasciando andare la tensione che le aveva attanagliato lo stomaco. Senza rendersene conto la sua mimica facciale trasudava riconoscenza nei confronti di Daphne, che sembrava aver colto quel suo malessere, nonostante la delicatezza con cui era riuscita ad aggirare l’ostacolo e il modo repentino con cui Summer aveva rigirato la frittata, fingendo indifferenza nei confronti di quel padre padrone così per lei spaventoso.

    Le parole della professoressa Harper distolsero l’attenzione di Summer da Sean, calamitandola invece sul senso di colpa che da anni ormai attanagliava la giovane Serpeverde. Erano passati più di cinque anni, quasi sei, da quando sua madre si era uccisa, lasciando nella sua vita e nel suo cuore un vuoto incolmabile. Summer non le aveva mai perdonato d’averla lasciata sola al mondo insieme a Sean, quel padre un tempo tanto amato e venerato e adesso invece così odiato e temuto. Fin dal giorno stesso in cui aveva fatto la macabra scoperta, Summer si era addossata la colpa di quel fatto. Aveva avuto incubi ricorrenti, in cui era lei stessa, da sonnambula, a mettere il cappio al collo di Kathleen. Quando si chiudeva in camera da sola in cerca di pace veniva invece assalita dai sensi di colpa, come se qualcuno l’afferrasse per la gola e cercasse di affogarla, facendo entrare acqua gelida nelle profondità della sua gola, fino ai polmoni. L’aveva ripetuto più volte, a sé stessa e a Meggie: sono stata io, l’ho uccisa io. Se solo non avessimo litigato. Quel litigio aveva innescato, secondo la visione di Summer, quella macchina mortale irreversibile.
    Il respiro della Sawyer-Butler vacillò, mentre le parole di Daphne arrivavano alle sue orecchie con chiarezza. La ragazzina si torceva le mani in grembo, quasi stesse cercando di distruggere le nocche delle dita con tutte le sue forze, lo sguardo basso a fissare un punto non meglio precisato ai piedi della scrivania della docente.
    “Però io l’ho spinta a farlo…” obiettò debolmente, ricacciando in gola quel groppo che le stava rendendo quasi impossibile parlare. La sua voce, generalmente così squillante e alta, sembrava quasi un rantolo di fronte all’incapacità di gestire quel flusso violento di emozioni.
    “Non… non l’ho mai detto a nessuno. Solo a Margareth. Ma io, ecco… me ne sono andata. Abbiamo litigato, io e Kathleen. Lei si è arrabbiata senza un apparente motivo. Io stavo mangiando e Kathleen giocava con qualcosa che aveva nel piatto. Dei piselli, mi pare di ricordare”.
    Summer deglutì, come se quel gesto potesse in qualche modo colmare quel senso di arsura che aveva in gola. Sentiva la trachea secca, come se avesse appena fatto un allenamento intensivo di Quidditch e Ross le avesse vietato di bere finché non fosse scesa della scopa. Invece era il panico a stringerla in quella morsa di aria rarefatta, la paura che Sean potesse scoprire che aveva raccontato a qualcuno che non fosse della famiglia cos’era accaduto davvero a sua madre, andando a contraddire la versione patinata che il padre aveva appositamente forgiato per le testate giornalistiche al fine di risultare il povero vedovo affranto e annegato nel dolore. Ricordare lo scatto in cui Sean l’aveva costretta a sorridere, fingendosi una figlia orgogliosa dei sacrifici e del dolore del padre, incurante dei suoi sentimenti e di cosa lei stesse passando, indusse Summer a stringere i pugni e a conficcarsi quasi le unghie nella carne.
    “Beh… mio papà era al lavoro e a quel punto Summer serrò le labbra e si sprecò a disegnare due ironiche virgolette a mezz’aria, muovendo ritmicamente gli indici e i medi di entrambe le mani “e ha mandato un gufo dicendo che avrebbe fatto tardi. Kathleen ha dato fuori di matto, se l’è presa con me e io me ne sono andata in camera. Poi l’ho sentita sbattere la porta di camera sua e lanciare un Alohomora e… capisce, sono stata io”.
    L’ultima frase fu lapidaria, quasi una sentenza disumana che costò a Summer uno sforzo enorme. La ragazzina, incapace di parlare di sua madre chiamandola in quanto tale ma solo con il nome di battesimo, si costrinse ad alzare lo sguardo sulla professoressa Harper, sperando di trovare sul suo viso un’espressione di rimprovero o di biasimo, la stessa che compariva sul viso di suo padre ogni volta che in passato aveva provato ad affrontare l’argomento.
    “Se io non fossi andata di sopra, se non fossi scattata e non avessi fatto i soliti capricci… se rimanevo lì con lei a parlare, a fare qualsiasi cosa che non fosse andarmene da quella cucina, lei probabilmente oggi sarebbe ancora qui”.
    Summer abbassò di nuovo gli occhi, incapace di sostenere ulteriormente lo sguardo di Daphne. Aveva appena sganciato una bomba e fatto la confessione più difficile della sua vita. Nervosamente muoveva le ginocchia, sfregandole tra loro, mentre i piedi saltellavano sulle punte quasi volesse spiccare un balzo di un paio di metri per sparire da quella stanza, inghiottita dal piano superiore.
    “Capisce perché chiedo a lei come ha fatto? Perché io non riesco a non pensarci. Non riesco a non sentirmi responsabile di quello che è successo…” ammise, scostando una ciocca di capelli dal viso e spostandola dietro l’orecchio sinistro.
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    Quell'incontro, per Daphne, iniziava a prendere la forma del tuo verso preferito all'interno di una canzone che non riesci mai a capire fino in fondo. Piccoli pezzi di puzzle monocolore che prendevano la forma di figure solamente nelle sfumature create attraverso la loro unione. Dai giornali - Daphne lo ricordava a malapena, non si era mai interessata più di tanto alle persone famose - la signora Sawyer-Butler era morta in tragiche circostanze, una disgrazia improvvisa. Ricordava nitidamente, però, l'immagine di quella bambina dai capelli color cioccolato, stretta nell'abbraccio confortante del padre, i suoi occhi colmi di dolore e la promessa di avere cura di lei. Un'immagine ancor più in contrasto con la paura di Summer nei confronti del padre e con la storia che iniziò a uscire dalle labbra della prefetto Serpeverde. Non è un litigio con la propria figlia a spingere una persona a gesti estremi, Summer. Ora il terreno era delicatissimo, sarebbe stata davvero dura. Quando le persone decidono di togliersi la vita, è difficile e quasi impossibile impedirlo. È molto probabilem che sarebbe successo comunque, qualche ora dopo. Saresti andata a dormire, prima o poi. Io... doveva dirlo? Doveva dirlo. Dal tuo racconto io credo che sia stata la lettera di tuo padre a darle la forza di fare ciò che ha fatto. Non conosceva il contenuto della lettera, né la storia della famiglia Sawyer-Butler, se non per quel poco che aveva letto sui giornali. Summer non ne parlava, della famiglia. Sarà sempre normale sentirsi responsabili. Io mi sento responsabile per non essere riuscita a salvare mio marito, perché non sono stata in grado di applicare le prime cure necessarie per far sì che arrivasse al San Mungo. Ma non l'ho ucciso io. E se vivi pensando cosa avrei potuto fare, smetti di vivere. Brutale, forse, ma Daphne non riusciva a non essere sincera in questo.

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    Le parole della professoressa Harper avrebbero dovuto in qualche modo lenire quel tremendo senso di colpa che da quasi sei anni ormai affliggeva Summer e lacerava silenziosamente la sua anima, tuttavia più Daphne parlava più il cervello della Serpeverde lavorava febbrile alla ricerca di un modo per riuscire a far quadrare la sua versione dei fatti. Era come se, in un modo o nell’altro, Summer volesse dichiararsi colpevole, quasi fosse una maniera per lavarsi la coscienza e togliersi un macigno dallo stomaco. Eppure, per quanto ci si sforzasse, quel pesante masso continuava a diventare sempre più faticoso da tollerare. Summer deglutì per poi espirare forte, mentre le sue membra tremavano in preda a un senso di colpa macerante. Iperventilava senza nemmeno rendersene conto.
    Quando Daphne fece ricadere la colpa del suicidio di sua madre su Sean, Summer spalancò occhi e bocca incredula. Aveva cercato più volte di capire quale ruolo avesse rivestito quella lettera e il suo contenuto. Ricordava benissimo l’espressione di Kathleen nel leggerla: il suo viso s’era incupito e i suoi occhi correvano lesti alla ricerca di qualche appiglio, mentre la solita nevrosi ormai cronica prendeva il sopravvento, lasciando che lo spirito sopito dalla depressione s’infiammasse in un impeto di rabbia. Aveva riversato il suo livore su di Summer e si era alzata, rovesciando persino il piatto. Bill, l’elfo domestico, era comparso subito a rassettare la cucina perché tornasse a essere impeccabile, come se l’immagine fosse tutto, esattamente come il padrone di casa gli aveva sempre fatto notare e, prima di lui, i suoi avi.
    “Dice?” domandò con cautela, quasi timorosa che quella presa di coscienza potesse in qualche modo compromettere la sua incolumità personale.
    “In fondo mio papà dormiva spesso fuori, non era una novità. Si fermava in ufficio con le sue fidanzate di turno, ma Kathleen… lei lo sapeva che c’erano le fidanzate e gli andava bene. Sapeva tutto” spiegò Summer. Ciò che la Serpeverde non conosceva, però, era il retroscena, quello che teneva insieme i genitori di Summer e che lei si era sempre limitata a guardare con gli occhi di una bambina. La Sawyer-Butler era all’esterno delle dinamiche dei suoi genitori, anche se aveva sempre ritenuto normale che suo papà si affiancasse a ragazze di gran lunga più giovani di sua madre o che le portasse a casa, perché quello era il loro "piccolo segreto", tra lei e Sean e nessun altro. Dacché aveva ricordi, Sean l’aveva sempre fatto e Kathleen non si era mai opposta. Ogni volta le accoglieva silenziosamente in casa, talvolta pranzava anche seduta allo stesso tavolo, seppur senza proferire parola alcuna. Lanciava occhiate, più o meno indiscrete, da uno all’altra, senza mai intervenire o aggiungere qualcosa che potesse infastidire il marito. Si limitava a dire dei “sì” poco sentiti, che per Summer però erano solo dei “sì”, ossia l’affermazione di qualcosa che a lei andava a genio. Era una cosa perfettamente normale che in casa Sawyer-Butler le amanti di Sean, il padrone di casa, andassero e venissero come in un porto di mare, nonostante la presenza della moglie. Ce n’erano alcune che entravano di soppiatto, altre che passavano dall’ingresso o che si materializzavano direttamente nel suo ufficio nel cuore della notte, ma la Prefetto non ci aveva mai visto niente di sbagliato. Forse era troppo piccola all’epoca per capire o forse era stata troppo ingenua ed egoista per rendersene conto; non l’avrebbe mai saputo.
    “Capisce? Se a me non sta bene una cosa, lo dico. Non dico di sì. Mi ha mai sentito dire di sì quando qualcosa non mi sta bene? Non è giusto farsi comandare passivamente, non esiste proprio!”
    La domanda retorica che Summer rivolse a Daphne conteneva molti più quesiti di quanto la sua semplicità nascondesse. Summer aveva imparato a essere irriverente, al limite della sfacciataggine. Aveva un’indole fortemente polemica e spesso s’infiammava quando qualcosa non le andava a genio, a costo di cacciarsi nei guai pur di ribaltare una situazione a suo favore. Non voleva subire passivamente la vita, in balia degli eventi, mentre gli altri vivevano con disincanto la loro. Non voleva diventare come sua madre, che restava in disparte, in un angolo, a leccarsi le ferite come un Crup. Voleva essere come suo padre: di successo, al centro dell’attenzione e rispettata, voleva che il mondo girasse come dicesse lei, perché anche una donna avrebbe potuto – o dovuto? – comandare a suo avviso. Ne aveva avuto prova tangibile quando Elizabeth Murton era entrata di prepotenza nelle loro vite, mostrando d’avere un ascendente molto potente su quel padre padrone, che all’improvviso da marito tirannico s’era trasformato in amorevole fidanzatino devoto.
    Le successive parole di Daphne lasciarono un senso di vuoto in Summer, che restò ammutolita, riflettendo su quell’ultima affermazione. E se vivi pensando cosa avrei potuto fare, smetti di vivere. Quella frase echeggiava nella sua mente con prepotenza, perché ogni giorno se lo domandava. Se lo chiedeva con incessante insistenza, fino ad arrivare al limite della frustrazione quando ogni volta le si palesava uno scenario differente sotto gli occhi. Era come se in quel libro il finale non fosse mai stato scritto e l’autore si divertisse ogni volta a cancellarlo e riproporne uno, il cui epilogo però era sempre il medesimo: non c’è niente da fare.
    “Lei quindi non se l’è mai-mai-mai chiesto nemmeno una volta?” domandò Summer con sincera curiosità.
    “Io… me lo domando ogni sera, prima di andare a dormire. Fisso il soffitto e mi chiedo come sarebbero andate le cose se fossimo stati nella casa in montagna. O se non avessimo avuto travi di legno in camera da letto. O se mio papà fosse tornato quella sera. O se solo non avesse mandato il gufo. Ecco… e ogni volta trovo risposte diverse, che però portano sempre a Kathleen che se ne va”.
    Summer sospirò, affranta, senza aggiungere nient’altro.

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