We are only as strong as we are united, as weak as we are divided

Il passo era rapido, il respiro calmo, eppure lo sguardo setacciava i corridoi che ora solcava a lunghi passi senza dar tregua alla pietra, gelo a comporre complessi disegni nell'imprimersi contro le ombre del castello, in cerca di uno sguardo che non avrebbe dovuto esser lì presente, di un qualcosa di troppo. Del giudizio altrui, che lo riportasse al suo posto, che lo riportasse indietro, lungo la rotta designata dalla sua ronda, autoimposta, sì, ma comunque un dovere al quale adempire, che ora invece ignorava in favore dell'istinto. Il freddo di quell'infida mattina di aprile sembrava non importargli, e vestiva la camicia, privatosi delle maniche, tirate su fino ai gomiti nel nervosismo, come se fosse l'unica cosa nel quale poter occupare le mani. E invece ora doveva tenersi comunque fermo, e teneva il fodero avvinghiato alla cassa toracica, e con la mano opposta invece giocava con l'anello d'acciaio che se ne stava sul medio.

Era strano. Ma lo era davvero? Sentirsi perso, tra quegli arazzi, quelle statue, quelle curve, quegli incroci, quelle volte, le colonne, le lesene. Ora si chiedeva se fosse giusto, non chiedere nulla a nessuno, non dar conto a niente e nessun'altro, metterla di nuovo avanti a tutto. Avanti a sé. Poi invero ricordava quella sera passata sul lago, le parole che le aveva detto nel separarsi prima di concluder da solo quella notte insonne, imbracciando la chitarra ad un falò spento, silenziosamente sussurrando i versi di canzoni mai cantate. E si chiedeva se fosse veramente sbagliato volerle bene, essere preoccupato. Gliel'aveva già detto, una, due, cento volte oramai. Non la pensava affatto debole, no, di contro lui si sentiva impacciato, insicuro, di contro si sentiva sempre indietro d'un impossibile passo, una falcata. Come se ancora gli mancasse qualcosa per tornare al suo fianco. E sapevano entrambi cosa fosse. O forse no? O forse aveva capito tutto alla rinversa, ed ora era la paura a parlare, il timore di non poterle strappare un sorriso, di veder di nuovo burrasca nel suo sguardo di dolce maree. E quegli occhi erano specchio di una bellezza che Emily riversava sul mondo, cogliendola dal proprio animo, dal viso e dal corpo, dal crine, quel guizzo di rosso che colorava le poesie più belle del ragazzo tassorosso.

Era da un giorno intero che non la vedeva. Non a lezione, non ai dormitori. Da un giorno intero che si privava di lei, di quel che in lei vedeva, della bellezza di un dipinto incastonato in una cornice, un mondo che in confronto alle pennellate perdeva ogni valore. I tacchi si fecero silenziosi avvicinandosi all'infermeria, il passo contenuto, lento. A non tradire le proprie intenzioni, la propria presenza. Una voce s'accese sul fondo del corridoio, alle sue spalle, ed il caposcuola si volse ad affrontare lo sguardo truce del custode. Gli rivolse un sorriso, un cenno della mano. "Uh. Giorno.", mormorò appena. All'uomo non gli piaceva si parlasse di buongiorno, perché, giustamente, fosse una buona giornata veramente, non ci sarebbe da lavorare. E come biasimarlo? Un cenno del capo, ed i due andarono in direzioni opposti, separati da un momento che ora aveva lasciato Zacharie senza fiato. Per un singolo secondo aveva creduto di dover rispondere di qualche problema accaduto in propria assenza, o forse semplicemente di un ordine dell'adulto. Ed invece ora si fece strada all'interno dell'infermeria. Non visto, non sentito.

Superò i letti vuoti. Un'ombra, lucente solo lo sguardo sotto i riflessi del sole in ascesa, che ancora una volta li guardava entrambi, dall'altro, giudice, riflesso dei capelli della giovane che ora andava visitando. La raggiunse. Era sicuro fosse sveglia, sicuro l'avesse visto, eppure le fece cenno di fare silenzio, di non farsi sentire. Che ora era? Controllò l'orologio, d'istinto. Presto. Troppo presto perché avesse senso metter un numero alle lancette, ancora non oltre la sveglia, tra i numeri inscritti in lettere nel quadro color crema. E si affiancò al suo letto, sistemandosi il crine scompigliato con una passata di mano, sedendosi laddove avrebbe dovuto farlo l'infermiera, a qualche ora di distanza dal suo arrivo, per controllare che tutto proseguisse a dovere.

Ed invece ora quel compito se l'era preso lui.

La guardò. Occhi premurosi, stanchi ma vigili, impregnati di quella volontà di aiutarla, trattenerla tra le braccia e donarle quelle poche energie con le quali s'era spinto fin lì, per starle accanto. Le sorrise, appena. "Ho sentito che non te la sei passata liscia, questa volta.", mormorò, un sibilo affidato all'aria fredda del mattino perché raggiungesse solo le sue orecchie. Dolce, zucchero, bergamotto. "Stai meglio?", le chiese, ora non riuscendo a sviare lo sguardo dal scivolarle addosso, incagliarsi tra quelle bende a fasciarle il corpo. Tornò a guardarla negli occhi, mani congiunte poggiate sul bordo delle lenzuola, sporto in avanti con il busto per non costringerla a virare troppo il capo contro il cuscino. E cos'altro c'era, da dirle? Avrebbe potuto raccontarle mille cose, e delle mille metafore che ora gli erano balenate in mente nel guardarla, così, e anche così non avrebbe saputo trovarne una che sapesse darle giustizia.

Ora non era importante, quel rossore, il tremolio della sua voce, ora cercava il suo sguardo e lei lo evitava, sviandolo, scivolandogli addosso per svanire tra le lenzuola che teneva tra le dita, tocco delicato, fragile. Annuì, ascoltandola raccontar di quell'inconveniente, della creatura da lei incontrata, quel che l'aveva abbattuta, trattenuta lì, intrappolata ai suoi pensieri. Lasciò che le loro dita si intrecciassero, tocco flebile, debole, gentile, mignolo attorcigliato al proprio indice. Voltò la mano, dorso riverso contro la stoffa, il vello morbido a coprirla, ora lasciando che il palmo scivolasse sotto quello della ragazza, a sostenerlo senza però stringere, anche lui per rispettare i suoi spazi, ma volendo comunque darle di più. Sì, di più.

Rimase per qualche attimo a pensare a cosa risponderle. L'aveva lasciata fare, intrappolato da quelle iridi ora lui rivolte, quasi come se volesse abbandonarsi al suono della sua voce, cullarsi nella consapevolezza di poterla ascoltare ora e per sempre, che fosse lì con lui, al sicuro, che non fosse troppo tardi. "Non è stupido, ma il professore ha fatto bene a trattenerti. Sei forte. Non vale la pena farsi ancora più male per dimostrare una cosa che sanno tutti.", le disse, con una carezza, il dolce tocco della voce a raggiungerla ed abbracciarla anche ora che le doveva dar ragione, che le doveva dire che continuare non sarebbe stato saggio - e in quello ricercare moderazione, dove invece lui per lei aveva già dimostrato di non riuscire a trovare alcun limite. Ma era giusto così, era giusto che quell'ipocrisia fosse reale, concreta, tangibile anche solo al tatto, verità a colmare il suo sguardo. Nell'altruismo si celava l'egoismo di chi non poteva fare altro che vederla come ancor più importante di sé.

Gli era chiaro, perché fosse lì, all'alba. Ma come esplicitarlo? Come spiegarlo? Come dirlo, quando s'erano ripromessi di non fare quel passo senza pensarci prima due volte? Ed ora, trovandosi a quel capezzale, si chiedeva se fosse giusto, dire tutto adesso, dire tutto così. Si chiedeva se fosse sbagliato, se sarebbe stato come approfittarne, prender vantaggio di quel momento, di quella fragilità. Si chiedeva se invece le sarebbe stato di sostegno, se anche lei ora fosse lì, su quel bilico, di fronte alla linea sottile che divide l'egoismo dall'affetto e quel che viene dopo. E rimase combattuto, in una trance, lasciando che fosse il tocco a parlare per lui, a tenerle compagnia. Delicate, le dita, la pelle. L'espressione s'era fatta pacata, neutra, ma presto sarebbe cambiato tutto.

"Sto meglio ora che so che stai bene.", a riassumere poi tutto quello che c'era da dirle, a far conto di tutte le domande e scartare quelle che non importavano, non ora, non in quel momento. Le sorrise, abbassò lo sguardo all'intreccio che s'era formato tra loro, ed ora chiuse la mano opposta contro il dorso della mano della Mills, a proteggerla, nasconderla, tenerla vicina. "Lo sai che mi alzo a quest'ora, di solito.", mormorò, quasi volesse sminuirsi, sminuire quel gesto, o forse semplicemente tentando di sviarla, lasciare ambiguo quel che invece era concreto, lasciarle modo di decidere se fosse giusto, tutto quello, lasciarle modo di essere semplicemente sé stessa, senza doversi preoccupare di quello che avrebbe voluto lui, senza ledere quel tessuto di piacevole omettere e silenzioso acconsentire ad esser sì quel che s'erano promessi, e un po' di più. Sì, un po' di più.

"Ti ho preso degli appunti in più.", sussurrò, lasciando ora scivolare la sinistra nelle tasche dei pantaloni, tirandosi appena indietro col busto. Ne tirò fuori un sottilissimo taccuino, piccolo, a malapena rettangolare. Tra le pagine marchiate d'inchiostro sbucavano pagine piegate di quelle parole che le aveva ricopiato in bella grafia, che ora sfilò con indice e pollice e poggiò sul comodino al suo fianco. Ripose il taccuino, movimenti lenti, deliberati e volontari, attenti, accorti ad ogni dettaglio. Scivolò di nuovo vicino, forse un po' di più, appena. Sì, un po' di più. "Ti serve qualcosa?", una domanda senza giusto riscontro, senza fine, un quesito al quale avrebbe potuto rispondere sempre, trovandolo lì, pronto a replicare.

Le sorrise. Era bello, saperla felice. Era bello, esserne parte, in un modo o nell'altro. Era bella. Perché negarlo? E perché mai avrebbe dovuto negarsi quel piacere, di starle a fianco, di guardarla, essere visto, essere sotto il suo sguardo e lasciarsi irradiare da quell'azzurro? Stella lontana, luce chiara di un mondo distante eppure ricolma di un calore familiare, bramato. "Se stasera sei ancora qui, torno a trovarti.", mormorò. Un'ovvietà, una tra le premure più semplici, quella d'esserci, a prescindere da tutto e tutti, quella di starle a fianco, qualunque cosa fossero, qualunque pensiero a separarli, qualunque il limite che si fossero imposti.

"Mh. Sicura?", domandò, non per insistenza quanto perché il suo gesto successivo fosse più d'impatto - rapide, le dita scivolarono nel taschino della camicia, sfilandone un cioccolatino. Lo poggiò anche quello sul tavolino, ridacchiando appena, un sorriso nato dal saper già la reazione altrui, a percepir il lume intrappolato nello sguardo altrui. "Non è granché, la colazione per i malati.", un'affermazione che faceva senza invero conoscer troppo di come funzionasse l'infermeria, essendosi sempre categoricamente rifiutato di varcarne la soglia per le proprie ferite, anche quando s'era rotto la caviglia a Cura delle Creature Magiche. Ora per un attimo si distrasse, lasciando che il proprio sguardo solcasse i confini della propria mano. Non erano facili da notare, le cicatrice impresse lungo le nocche, eppure per lui non era difficile ritracciarle, sì, le conosceva a memoria oramai.

Inutile distrarsi. Tornò a guardarla. Il ballo di fine anno? Non ci aveva neanche pensato. Era stato lui a chiederle del ballo di San Valentino - era ovvio che lei sarebbe andata, ma comunque era stato lui ad imbastire una conversazione a riguardo, uno scambio, qualche parola rubata qualche corridoio di distanza dall'aula del professor Bresc. La fissò, scosse appena il capo biondo. "Non saprei.", mormorò.

"A te va di andarci?", le domandò lui, sì, "andarci", e ora parlava di quel "noi" che non era nulla, sol che definibile dai loro nomi, dall'esser due, Zacharie ed Emily. Senza etichette, senza obblighi e pretese, solo sogni e desideri soppressi. "Dovrei comunque andare, credo, non voglio capitino problemi. L'anno scorso non sono andato e mi sono perso l'ennesimo putiferio.", sussurrava, e lei ne sapeva ben più di quanto il Fletcher non ricordasse, essendo che era stata presente. "Mi sa che se rimango Caposcuola mi toccherà questo ballo e i prossimi a venire... almeno come spettatore.", spiegava.

Strinse appena la mano. Fece tutto da sola, le dita a carezzarla, a tenerla, sentendola ancora più vicina. "... Quant'è che non balliamo assieme?", le domandò, un chiaro invito, il suo, carico di una dolce nostalgia, della volontà di tornare indietro, almeno per una sera, di poterla tenere di nuovo tra le braccia, stringerla e farla sentire protetta. Nascondersi dal mondo nel suo profumo, tra quei guizzi di rosso e d'azzurro, veder tutto svanire attorno a lei, realtà ridotta ad una sala di specchi perché della sua bellezza tutto divenisse un riflesso.

Sentirla ridere non poteva che farlo sorridere. E lo sguardo azzurro si perse lungo la via, dovette distoglierlo per non mostrarle più di quanto non potesse, scuotere appena il capo biondo, nascondere quello sbuffo di risata che in qualche modo lei riuscì comunque a trascinargli fuori. Le fece cenno di far più piano, ora, con l'indice sulle labbra mentre la rossa esultava per il suo dolce pensiero. E sentì quella pausa, quell'esitare, e d'istinto andò a sbirciare nell'anima altrui, passando per il suo sguardo, incontrandosi a metà strada. "Mi pare il minimo...", rispose, giocando con quelle parole che gli erano state riservate, le sillabe giuste nascoste ancora nei loro cuori. Ed oramai non era poi così difficile discernere quando lei fosse intenta a dissezionarlo, a ragionare, tirar fuori il senso e le verità dalle sue frasi in cerca di quel che condividevano, ancora inespresso, mai detto, mai detto per davvero. La guardava e sorrideva, ed ora di nuovo si ritrovò a ridere, sentendosi rigirare la stessa giocosità con la quale l'aveva appena ferita.

"Chi lo sa?", replicò, un bel sorriso nel vederla alzar lo sguardo al cielo, in cerca forse di un modo per evitare d'esser di nuovo trafitta dal suo azzurro. Annuì appena, un mugugno d'assenza a farle sapere che aveva ragione, che su quel ballo la pensavano allo stesso modo - sì, allo stesso modo. Ma poi, alla fine, che importava? Di quella notte ricordava solamente una cosa. La speranza. Di fondo, l'avrebbe descritta che attraverso quella parola, quella serata. Sulla pista, sul palco, tra la folla, fuori dalle mura della sala grande. Era stata quella, a guidarlo. A dargli consiglio. A dirgli di non arrendersi neanche alle proprie paure, al più profondo buio che ne abitava la cassa toracica, che si dimenava nel suo cuore alla ricerca di una via di fuga, incatenato dalla luce.

"Mh." , mormorò. Sì, spettatori. Aveva rubato lo spettacolo, quell'oramai lontano giorno di febbraio. Non sentiva il bisogno di dichiarare null'altro, al mondo. Potevano essere solo loro due, sì. Nell'intimità era sicuro che avrebbero ritrovato quello che cercavano, non c'era più motivo di negarlo, di negarselo. Non c'era più motivo di averne paura, di avere paura di sé stesso, perché invero era stato lei a dargli la forza per superarsi, invero era stata lei ad accettarlo per quello che era prima che ci riuscisse lui stesso. Sì, forse quello ancora gli mancava. La sentì farsi vicina, e per un attimo la mente si spense, e lasciò l'istinto guidarlo in avanti, perché ad ogni attimo e ad ogni respiro la distanza a separarli divenisse metà di quanto non fosse prima. In un eterno rincorrersi, senza fine, intrecciati dalle parole della Mills, la sua fermezza nel dichiararsi uniti, in un modo o nell'altro, per quell'occasione in arrivo, quella conclusione per un anno... complicato, sì, complicato. Complicato. Complicato?

C'era qualcosa che non andava. Si ritirò, quasi fosse riuscito a prevedere il rumore d'una porta appena dischiusa, passi pesanti di chi s'alzava controvoglia in vista di un'altra giornata di lezioni. Si volse, anche se ancora la teneva per mano, stretta a sé come avrebbe voluto trattenerla in quel bacio rubato. Gli ci volle qualche attimo per tornare a ragionare, mente ancora in panne dall'attimo a precedere quell'interruzione. Solo Emily riuscì a ricordargli chi fosse arrivato, sì, chi l'avesse chiamato per nome.

"Uuh...", e con un cenno della mano completò il saluto che avrebbe voluto rivolgergli, spezzato dalle parole dell'infermiera, oltre la porta, impegnata in chissà cosa ma comunque attenta a chieder loro di darsi una mossa. "Hm.", mormorò. "Tutto bene, Mills. Poi devo chiederti un favore.", replicò, voltato a quel modo, ancora seduto. Gli fece cenno di andarsene, sguardo comprensivo, come a dirgli che non ci fosse bisogno di far arrabbiare l'infermiera per una piccolezza che aveva intenzione di chiedergli. Ci sarebbe stato tempo di farlo in un secondo momento, ma almeno così aveva trovato il modo di rifilargli una domanda tra i corridoi, senza dover imbastir pretesti e senza troppe pretese.

Si tirò in piedi, guardando il cugino della ragazza che ancora inconsciamente teneva per mano scivolare fuori dalla stanza. Era coperto, quel gesto, dal proprio corpo, dalla prospettiva, ma per qualche ragione non riuscì a trattenere il rossore delle gote, del volto intero. Non mollò, però, quell'intreccio di dita. La mano opposta le carezzò la guancia, e rapido scivolò di nuovo vicino, vicinissimo, in quell'attimo che gli era stato concesso. Un attimo per redimere perlomeno quel sentimento che gli era stato rubato. Le lasciò il proprio sapore sulla guancia. Un sussurro. "A stasera, Emily.". Mormorio solo per le sue orecchie. "Aspettami." Un'ultima carezza. Fuggì, sistemando le maniche della camicia, l'uniforme, passi rapidi a guidarlo verso l'uscita.

Le scoccò un ultimo sguardo, da sopra la spalla. Le mimò qualche ultima parola, solo le labbra ad esprimere i suoi pensieri. "Sei bellissima.", perché ancora non gliel'aveva detto. E non era giusto, lasciarsi così. Tirò i lembi del colletto, si passò una mano tra i capelli, con uno schiocco lasciò tintinnare la spilla sul petto. Lo attendeva l'ennesima giornata piena.

Sperava solo che passasse veloce, il tempo.

Era sicuro che l'avrebbe atteso. E non gli andava giù, la consapevolezza di doverla far aspettare così tanto.