Sam fissava le sei bare di cristallo con sguardo assente, contemplandole senza vederle davvero. Aveva le cornee appannate, le pupille sfocate, distratta dai riflessi delle candele sul vetro che creavano arabeschi dorati, decorando i volti pallidi e gli abiti troppo flosci che si celavano al di sotto con un pizzico di colore. L’eco della tempesta, all’esterno, rimbombava ovattato nel suo cervello, un grido del cielo che suonava cullante come una ninnananna, più accogliente e comprensibile delle parole di Shane. Qualcosa le diceva che erano sentite, che il suo cordoglio era sincero, eppure non riusciva a dar loro valore, così come si sentiva incapace di fare o provare alcunché. Si sentiva svuotata, privata di ogni emozione, quasi inebetita dal silenzio opprimente che regnava nel castello da quando le notizie delle morti dei suoi compagni erano giunte, una dopo l’altra, a devastare gli animi di chi li conosceva.
In prima linea, molte file più avanti, rispetto a lei, c’erano i familiari e gli amici più stretti, mentre un corteo di studenti faceva avanti e indietro dall’area delle teche con mazzi di fiori, cascate di lacrime e vinili di frasi sconnesse e singhiozzanti.
E lei non provava
niente. Com’era possibile che non provasse niente? Per colpa del morbo sei giovani che avevano condiviso con lei la stessa aria non avrebbero più potuto passeggiare per i corridoi, scherzare in Sala Grande, svagarsi nel parco, chiacchierare fino a tarda notte nei loro dormitori. Nessuno l’aveva detto, ma Sam era certa che avessero sofferto prima di spirare. Ricordava fin troppo bene il dépliant che le Guaritrici avevano lasciato in infermeria quando li avevano vaccinati, la paura che aveva provato per i suoi parenti che vivevano più vicini alla campagna che non in città… si domandò cosa sarebbe successo se fosse stata lei al loro posto, come avrebbero reagito i suoi genitori, suo fratello e sua sorella, Lara, Eveline, Audrey… Nathan… Il suo volto irrigidito dall’apatia si contorse in una smorfia di disprezzo: come poteva riflettere su di sé durante la veglia funebre di qualcun altro?!
Un piccolo sospiro amareggiato le fuoriuscì dalle labbra irrigidite, e si strinse senza averne davvero bisogno nel maglioncino nero che la Lilnoir le aveva prestato, visto che di indumenti dai colori cupi, divisa a parte, non ne possedeva. Doveva focalizzarsi. Non riusciva a capire perché fosse andata a finire in quel modo: il vaccino non era sicuro? Gli organismi di quei sei ragazzi non l’avevano assorbito adeguatamente? E poi c’era sempre ciò che aveva letto in quel dannato libro, l’estratto del diario di Michael McArthon a proposito del Mehenis. Malgrado ormai avesse compreso che risvegliare quella creatura leggendaria – sempre che fosse mai esistita davvero – avrebbe causato più danno che beneficio, trovava frustrante che non vi fosse davvero nessun’altra soluzione all’Heliantus.
“Solo alla morte non c’è rimedio, piccola” le aveva detto sua nonna una volta, mentre le raccontava di Pádraig e dei suoi esperimenti con l’alchimia. Ciò però non significava che il resto dei rimedi funzionasse sempre per tutti, come la chemioterapia per i malati di cancro o chissà quali altre disfunzioni. Persino i paraplegici, in qualche modo, avrebbero potuto ricominciare a sentire o a muoversi – Levon era stato ben chiaro quando aveva spiegato come funzionasse l’Aura e che anche i babbani vi potessero accedere. E allora perché ora si stava infuriando tanto? Per un capriccio? Per un desiderio infantile e irrealizzabile di salvare il mondo?
Le sue iridi cerulee si spostarono verso la bara più minuta, quella di Alyssa, tra tutti quella che più l’aveva toccata, persino più di Dawn che era una sua concasata. Alyssa era una
bambina. Aveva solo undici anni, aveva appena cominciato a capire chi fosse… non la conosceva se non attraverso le conversazioni udite in Sala Comune dai Tassorosso del primo anno che l’avevano come compagna, ed il groppo alla gola che avrebbe dovuto avvertire già da tempo le mozzò finalmente il respiro. Si morse la lingua per non piangere. Non ne aveva alcun diritto. Non come Pauline, Kharis o Audrey... non avrebbe mai potuto capire come si sentissero in quel momento e, a costo di sembrare egoista, non avrebbe mai neppure voluto saperlo. La vista della
Hastings, in lontananza, scossa dai tremiti e accompagnata da qualcuno che non riusciva a distinguere, fu per Sam come un pugno nello stomaco. Era già la seconda volta che la Serpeverde la sorprendeva, palesando una debolezza che quotidianamente occultava benissimo, la seconda volta che si sentiva in colpa per ciò che di brutto aveva spesso pensato di lei, e in quel momento prese la decisione di provare a cambiare le cose tra loro, in qualche modo. Prima o poi.
Un altro sospiro. Avrebbe dovuto imparare qualcosa da quell’esperienza? Di certo non si sarebbe fatta angosciare da paranoie sulla medicina, ma questo non lo faceva neppure prima. Raggiungere la consapevolezza che la vita era effimera? Forse. Ma dalla sua posizione, dalla sua prospettiva così distaccata, non riusciva a percepirne appieno il valore. Non si era mai trovata in fin di vita. Non aveva toccato il dolore della perdita, mai se non con Nathan. Ma lui era
vivo. Doveva esserlo, e la sua determinazione a crederlo tale la rendeva ancora più inadatta a condividere lo stato d’animo di coloro che la circondavano. Ancora una volta si sentì una stupida, un’ingenua cresciuta e vissuta nella bambagia…
«Non tormentarti, Sam»
La voce di Lizzie, alla sua destra, era morbida e rassicurante, lo sguardo di cioccolata privo d’ombre puntato verso le bare di Stephan, Perseus e David.
«Non mi sto tormentando» ribatté lei piccata, una punta di acredine nella voce che si sforzò di tenere bassa, e sobbalzò quando Mary Elizabeth le sfiorò la mano, realizzando di averla stretta in un pugno tanto serrato che le nocche erano sbiancate. Suo malgrado, rilassò la postura e le falangi intorpidite, senza però guardare la sorella.
«So cosa stai pensando. Non devi necessariamente portare un defunto sulla coscienza per crescere o maturare. Non ti renderà più interessante o più sensibile»A Sam si contorsero le viscere, colpevole, odiando Lizzie per la sua capacità di capirla con una sola occhiata ed invidiandola allo stesso tempo. Non provò neppure a negarlo.
«Ma io non provo niente. Dovrei piangere, e non ci riesco… » sussurrò lamentosa, ricacciando indietro le lacrime di frustrazione.
«Non è vero, questo» la corresse Lizzie dolcemente, ruotando il capo verso sinistra, verso la minore. La sua espressione era seria e composta come sempre, ma negli occhi Sam vi lesse molto più di quanto non trapelasse dal suo viso.
«Sei arrabbiata. Stai riflettendo su te stessa, su cosa significhi tutto questo, su ciò che vorresti o potresti fare per impedirlo… Sei qui. Saresti potuta rimanere in dormitorio»
«Sai che non avrei mai potuto»
«E perché? Se non ti interessava-»
«Non ho mai detto che non mi interessa!» sbottò, appena più forte, e le persone circostanti la guardarono male.
«Visto? Consentimi di essere franca: non credo che tu sia qui solo per evitare di essere additata come un’insensibile se non avessi partecipato»Sam arrossì, il nodo alla gola si ingrossò, la stretta alle viscere si acuì, il cuore le tamburellò ad un ritmo sincopato, straziante. Ancora centro.
«No?»
«Penso che tu sia abbia deciso, più o meno inconsciamente, di presenziare a questa veglia perché volevi metterti alla prova. Capire se vedere in prima persona i corpi dei tuoi compagni ti avrebbe suscitato qualche emozione. Per sentirti parte di qualcosa»A quelle parole anche Sam ruotò il collo, scrutando infine sua sorella negli occhi, colma di speranza.
«Davvero?»Lizzie accennò un minuscolo sorriso.
«Sì». Spostò le pupille sulle teche di cristallo per qualche istante, riportandole poi sulla minore.
«Mi accompagni a fare le condoglianze?»Sam annuì in silenzio, indietreggiando ed imboccando la navata centrale, sua sorella accanto che le teneva la mancina sulla spalla destra e Fany, dal volto rigato di lacrime, che le seguiva. Mentre erano sedute aveva stretto la mano all’amica per tutto il tempo e adesso sembrava un fuscello in balia del vento. La Tassorosso rallentò l’andatura, voltandosi appena per poter guardare la Hwang, e le porse la mancina, invitandola al suo fianco. La corvina ebbe un singulto di commozione e speranza e le rivolse un minuscolo sorriso prima di intrecciare le dita sottili alla piccola mano della Prefetta.
«Grazie, Sam»Sam scosse solo la testa, un tuffo al cuore per quelle due parole, continuando a procedere in silenzio con le due ragazze. Sembrò una marcia infinita e si sentiva addosso gli sguardi di tutti, ma sapeva che non erano le prime e non sarebbero state le ultime a porgere un ultimo omaggio ai sei, che le pupille lucide di tutti erano rivolte verso il fondo della Sala o verso i propri cari e di certo non badavano a loro. Il suo respiro però si era regolarizzato, le membra le tremavano di meno; lasciò distrattamente la mano di Fany per permetterle di avvicinarsi ai suoi ex-concasati ed alle famiglie dei caduti per condividere il proprio lutto, e rimase da sola con sua sorella.
«Li conoscevi bene?» chiese, le iridi rivolte alle teche immacolate, il palmo di Lizzie confortante sulla sua spalla.
La percepì scuotere la testa prima di rispondere.
«Fany è stata la mia unica, vera amica, lo sai. Ma ho frequentato molte lezioni con Stephan e Dawn, e Percy era un Corvonero, come me. Abbiamo dormito nella stessa torre per anni… » la sua voce si perse.
«È per questo che non piangi? Perché non li conoscevi bene?»
Lizzie scosse di nuovo la testa.
«Non credo si tratti di conoscenza, quanto più di affetto. C’era familiarità, ma non volevo loro bene». Sam si contrasse a quella frase, ma sapeva che Lizzie era fatta così, che diceva esattamente ciò che le passava per la testa senza cattive intenzioni e con il più assoluto candore. Due lati di sé combatterono per qualche momento, lottando per decretare se domandarle o meno come si sarebbe sentita se fosse capitato qualcosa a lei, a Seth, o a qualche altro membro della famiglia, ma alla fine lasciò perdere. Aveva l’impressione che il discorso della maggiore sottintendesse proprio la risposta che la Tassorosso cercava.
Sam portò allora la mano destra all’insù, stringendo quella di Lizzie sulla sua spalla.
«Sei arrabbiata?»
«Non è esatto». Passò qualche secondo prima che riprendesse.
«Mi dispiace che la medicina non sia riuscita ad aiutare tutti, che questi ragazzi abbiano visto la speranza del vaccino tramutarsi in qualcosa di vano, che possano essersi sentiti traditi, o essersi chiesti se per caso qualcosa non andasse in loro». Un’altra pausa.
«La medicina non è infallibile, statisticamente anche molti altri, oltre a loro sei, hanno perso la vita a causa del morbo, eppure piangiamo solo loro, perché in qualche modo li conoscevamo. Sono un esempio, un simbolo di ciò che anche le famiglie e gli amici delle centinaia di persone che sono state vittime dell’Heliantus stanno provando. Volevi fare parte di qualcosa? In questo momento non sei solo con coloro che sono qui presenti, ma anche con tutti gli altri»Sam ci aveva già pensato, eppure sentirselo dire in quel modo da Lizzie faceva assumere a quella consapevolezza una nuova sfumatura, un sentore più caldo e profondo.
«Ma non sei frustrata perché non ha funzionato?»
«E a cosa servirebbe? Non è così che si progredisce, non è lasciandosi sconfortare e pensare al problema la risposta. Bisogna focalizzarsi sulla soluzione. Sono certa che i Medimagi si stiano arrovellando per concepire un vaccino ancora più efficace, che gli Erbologi si stiano spremendo le meningi per capire se vi sia altro da scoprire sul fiore che possa aiutarli nella ricerca. Noi non siamo né gli uni né gli altri, non possiamo fare altro che affidarci a loro, avere fede nel loro lavoro, nel fatto che faranno di tutto per evitare che accada nuovamente; ciò che ci resta è commemorare i caduti, stare vicini l’uno all’altro per quanto possibile. Il solo fatto che tu sia qui è un tassello importante, un aiuto fondamentale. Una persona in più che riflette su quanto è accaduto, che piange il loro avvenire rubato, che matura il desiderio di poter essere utile, in futuro». Tacque.
Sam non sapeva per quanto tempo rimase lì, gli occhi rivolti alle bare, prima che il torpore le si scrollasse di dosso.
«Voglio andare a salutare i compagni di Alyssa e la sua famiglia» dichiarò, sciogliendo la presa della palmo di Lizzie.
«Vai pure». Lizzie le sorrise lievemente, una scintilla d’orgoglio nello sguardo.
«Io raggiungo Fany».
Si separarono. La Tassorosso si avvicinò ai cari della piccola Corvonero e disse loro quanto fosse dispiaciuta per la loro perdita – per la perdita di tutti. Che per qualunque cosa ci sarebbe stata, che avrebbe aiutato volentieri. Il padre la abbracciò, nominando la spuma del mare, e lei fece lo stesso con i compagni di Alys. Si sentiva meglio. Si sentiva più viva. Sperava che il nome della piccola presto non sarebbe più stato tabù per poterne parlare. Perché tacerlo? Ignorare cosa fosse successo era anche peggio, come se Alyssa non fosse mai davvero esistita, e lei voleva che
vivesse, o ad ucciderla una seconda volta sarebbero stati i superstiti.
No, non l’avrebbe mai permesso.